sabato 10 settembre 2016

Algeria, l'uomo di Tamanrasset.





"Tamanrasset, le strade di sabbia rossa, i muri delle case impastati di fango e paglia, ombreggiati dalle verdi tamerici sahariane, Tuareg indolenti dall'ampio turbante e dalle gandure azzurre che passeggiano pigri tenendosi per mano, mercato fatto di corridoi e portici dove si ammucchiano per terra pochi legumi, datteri secchi coperti di mosche, selle da cammello, taniche di plastica, burnus di lana, aromi, ossa, misteriosi involti di farmaci africani, un fortino con quattro torri, grande cubo di terra rossa, il bordi, con una porta piccola e bassa, protetta da un muro antiariete, sulla parete a destra dell'ingresso un grosso buco che interrompe l'informità dell'intonaco screpolato come una pelle di elefante, il foro di una pallottola sparata la sera del primo dicembre del 1916".






Descrive così la mitica Tam, Gino Boccazzi nel suo "L'uomo di Tamanrasset" (Rusconi 1983) il libro che ha dedicato a padre Charles de Foucauld, il marabut bianco, l'uomo che per anni ha studiato la civiltà Tuareg ed ha cercato di mediare fra i colonialismo francese e il bisogno di libertà dei nomadi del deserto.
Era nato in Alsazia, nel 1858, De Foucauld, da una famiglia nobile che lo aveva avviato alla carriera militare iscrivendolo all'Accademia di Saint-Cyr e, giovane ufficiale, era stato mandato di guarnigione in Algeria dove aveva capito che la disciplina e le ottusità del mondo militare gli andavano troppo strette per resistere a lungo.
In più la vita nel deserto algerino lo avevano affascinato, i silenzi, i grandi cieli stellati, il canto del vento, le dune, altari naturali, eretti a salvaguardia di un mondo che non voleva aprirsi ai francesi, lo aveva spinto verso l'ascetismo, così aveva deciso di entrare in una congregazione religiosa e nel 1910 era stato ordinato sacerdote.







E subito era entrato nel deserto, in Marocco, in Algeria, quindi a Tamanrasset dove quella pallottola di cui racconta Boccazzi ha posto fine ai suoi giorni.
Una fulcilata folle, senza senso, perché De Foucauld era ben noto a tutti i Tuareg della zona ed era anche ammirato per il suo modo di comportarsi: un bianco che parlava la lingua dei Tuareg, che fraternizzava con gli schiavi, coi poveri, che viveva di nulla, che era giunto, unico in quei giorni, senza un fucile, che indossava una logora tunica, un tempo bianca, con un cuore rosso sormontato da una croce sul petto.Erano giorni in cui il colonialismo, come per giustificare la sua violenza, non soltanto negava ai popoli sottomessi la loro cultura ma ne cancellava sistematicamente i tratti, misconoscendone i valori.
"Il marabut dal cuore rosso", si comportava ben diversamente, era l'agnello in mezzo ai lupi, perché lupi erano anche i Tuareg, uomini forti, orgogliosi, abituati a farsi giustizia da soli, gente che concepiva la razzia come un atto di coraggio, che viveva con il pugnale alla cintura.





Poi De Foucauld si era ritirato sull'Assekrem, in superba solitudine, una vetta scoscesa, aspra, crudele, fra rocce, sole, vento, elementi che sembrano riconciliare l'uomo alla vita e spingerlo verso Dio.

Una piccola casa di pietra, che ancora esiste, e dentro una scritta: "Non custodisco abbastanza la presenza di Dio".
Lassù, fra quelle rocce spigolose, feroci, nel grande silenzio rotto soltanto dalle grida dei falchi, sono nati i tanti studi di quell'uomo mite e severo con se stesso che per capire un popolo ha cercato di farne parte, di adattarsi alle condizioni locali, di amare  i più bistrattati come amava l'amenokal, il capo, del quale era divenuto amico e confidente.
Accettato dagli altri, sia pure con qualche sospetto, guardato come un diverso dai suoi, quei francesi che avevano voluto occupare anche il grande vuoto dove soltanto i Tuareg erano in grado di vivere.
Poi quello sparo, opera di un fanatico.
Ed ora le spoglie riposano a El Meniaa in un sarcofago posto vicino ad una piccola cattedrale cattolica, quella di San Giuseppe.