martedì 13 dicembre 2016

Lo zaino di Jambo: Patagonia, uomini e puma.


Patagonia: uomini e puma.
La storia della difficile convivenza tra i colonizzatori di questa terra estrema e il felino simbolo della Patagonia.
Per recinti e fucili rischiano l'estinzione anche "pudù" e "Huemules", mentre le balene della penisola di Valdes sono ormai "monumenti naturali" intoccabili.







A destra c'è solo l'erba e vento, a sinistra pure; davanti e dietro è lo stesso, a perdita d'occhio.
Poi d'improvviso ecco una casa di legno niente male in arnese, con un'insegna: "La Leona".
E' un caffè sperduto nel sud est della provincia di Santa Cruz: insomma nella pampa profonda, dove telefoni ed elettricità non sono mai arrivati.
L'estancia più vicina (la Silesia) è 16 kilometri più a nord, il villaggio meno lontano ( Charles Fuhr) 84 in direzione sud.
Quel caffè isolato dal mondo è gestito da una trentenne che vive laggiù tutta sola : si chiama Irma Westerlung ed è finlandese.
ora non pensate che "La Leona" sia riferito a Irma, donna coraggiosa e solitaria come i leones, cioè i puma che vivono sulle Ande.
Se il caffè si chiama così è in onore di un puma vero: una femmina che nel lontano 1916 s'imbattè da quelle parti in un esploratore dal nome leggendario, Perito Moreno, e lo aggredì.
Nel confronto l'animale perse la vita ma guadagnò fama eterna: prima che al caffè, quel nome fu dato a un vicino fiume, che taglia pigramente la steppa e va a gettarsi nel  Lago Argentino, proprio come un celebre ghiacciaio che ( ironia della sorte) si chiama Perito Moreno.





Ogni tanto qualche puma passa ancora nei pressi del caffè di Irma: "Io non ne ho mai visti, ma un allevatore ha trovato delle orme non lontano da qui", racconta lei.
Incontri simili sono comunque rari, perchè i leones non sono stupidi: hanno imparato in fretta che dall'uomo è meglio stare alla larga; così preferiscono cacciare nei fitti boschi andini, rifugio degli huemules, i tipici cervi patagonici, o nelle steppe più remote, che pullulano di guanachi, cugini selvatici dei lama.
Cervi e guanachi sono prede più facili dei bovini, dunque non vale la pena di rischiare la vita avvicinandosi alle estancias.
Ma questo vale solo d'estate, d'inverno, quando cade la neve e la caccia diventa difficile, i leones attaccano anche le mandrie, dice Tonci Kusanovic, allevatore di ascendenza croata che dirige La Angostura, un'estancia sul Rio Chico, 180 kilometri a nord del Rio Leona.
Tonci apre una vecchia stalla e indica una trave da cui prende una pelle di puma.
Ma il Leon non è una specie protetta?, "si, però se un esemplare uccide 40 capi di bestiame può essere eliminato", si autoassolve.







Chissà se il puma della trave era veramente un serial killer o se ha pagato le imprese di una intera tribù di congeneri...
Le storie di uomini e puma che la provincia di Santa Cruz può narrare sono molte.
E tutte dicono la stessa verità: far convivere la fauna selvatica con l'uomo bianco è difficile.
Due secoli fa il problema non esisteva, perchè in Patagonia vivevano solo popolazioni indigene che con la natura locale avevano un rapporto diverso rispetto a quelli dei coloni arrivati dal Nord.
Certo: anche loro cacciavano, ma con armi meno micidiali dei fucili; e soprattutto non avevano mandrie da difendere, nè usavano tagliare la steppa con reti di filo spinato per ricavarne terre private, vietate a puma, volpi e guanachi.
Se la fauna in Patagonia abbia sofferto  più per i fucili, i recinti di confine o la concorrenza alimentare del bestiame domestico, è tutto da vedere; certamente è colpa delle armi da fuoco se gli huemules, un tempo numerosi, oggi sono a rischio di estinzione.





Idem dicasi dei pudù, cervi nani che sopravvivono solo in qualche area protetta.
Intendiamoci, di sicuro i guanachi non sono nelle condizioni drammatiche dei pudu e degli huemules: viaggiando in auto in Patagonia se ne vedono a centinaia, dalle valli cilene alle coste dell'Atlantico.
Ma è indubbio che le grandi ganaderìas ( allevamenti allo stato brado ) abbiano fatalmente sottratto spazio ai "lama selvatici".
E ciò  ha avuto effetti a catena, compreso il fatto che i puma attacchino il bestiame.
Infatti il filo spinato può fermare i grandi erbivori ma non i leones, che una volta entrati nei latifondi cacciano ciò che trovano.
E in mancanza di guanachi, ripiegano sulle mucche.
Finora questa rivoluzione ambientale ha fatto poche vittime: ufficialmente l'elenco degli animali estinti negli ultimi 200 anni comprende solo un coleottero acquatico in Cile e una lucertola in Argentina.
Molte di più sono però le specie che potrebbero finire male nel prossimo futuro: l'Iucn, l'Istituto scentifico che sta alle spalle del Wwf, ritiene a rischio più o meno grave 311 tra animali e vegetali in Cile e 407 in Argentina.
E c'è chi è ancora più pessimista: la Foundacion Vida Silvestre, un club protezionista di Buenos Aires, afferma che le specie in pericolo in Argentina non sono 407 ma 779.







Consola poco sapere che questi dati non si riferiscono alla sola Patagonia ma all'intero territorio dei due Paesi.
Eppure nonostante questo quadro preoccupante, la Patagonia resta ( in tandem con la Terra del Fuoco ) una delle più grandi riserve faunistiche della Terra.
E' logico: qui, l'invasione umana è arrivata tardi, quindi la natura è rimasta integra più a lungo; inoltre l'estrema varietà di habitat ha spinto la fauna a evolversi per mille strade diverse.
Morale: in Patagonia vivono nutrie, colibrì e armadilli come in tutto il Sudamerica, ma anche marsupiali come in Australia ( l'opossum cileno è il  monito de monte, lontani parenti dei canguri ma piccoli come ghiri ) e un'armata di canidi selvatici variegata come in Africa.
Questa biodiversità raggiunge punte estreme tra gli uccelli.
In ogni habitat la Patagonia conta, oltre a rappresentanti generici, anche autentici primatisti: qui vivono per esempio l'uccello nuotatore, il rapace e il volatore d'alto mare più grandi del mondo, cioè il pinguino imperatore, il condor e l'albatro reale, signori di ambienti diversissimi fra di loro, come le terre sub polari, le Ande e gli oceani.











Punto Tombo ricorda quanto sia vicina L'Antartide, che dei pinguini è la patria d'eccellenza: fra la Terra del Fuoco e la Penisola di Palmer, avamposto del continente di ghiaccio, corrono solo mille kilometri.
Per questo motivo, quando l'inverno antartico rende inabitabili le latitudini estreme, gli animali si spostano verso nord.
Attenzione particolare meritano le balene, che nelle acque argentine hanno il loro "palazzo d'inverno" preferito: dei 7000 esemplari che la franca australe conta nel mondo, 2500 incrociano stagionalmente al largo della Penisola di Valdes, dove si riproducono e sono diventate da tempo una redditizia attrazione turistica.
Tutti protetti, tutti monumenti anche se si tratta di ben strani monumenti, che si spostano di continuo.





Il puma invece non è ( ancora ) incluso tra i "monumenti": gli allevatori lo odiano, i montanari andini lo temono: quindi la tutela assoluta del predatore riuscirebbe impopolare.
"Eppure da noi il leon non attacca mai l'uomo: i rarissimi incontri si risolvono sempre con la fuga dell'animale" giura Adrian Falcone, guardia del Parco Los Glaciares, una delle poche aree-rifugio dove il felino può tuttora cacciare in pace.
Chissà, forse un giorno uomini e puma  riusciranno a convivere: come del resto fanno già le acque del Rio Leona e del ghiacciaio Perito Moreno, che si mescolano nello stesso lago.










Natura: Il corallo e la sua guardia del corpo.





Quando è minacciata da un'alga tossica infestante, una specie di corallo rilascia nell'ambiente una sostanza in grado di allertare alcune specie di pesci che trovano abitualmente rifugio negli anfratti corallini. 
Grazie a questa segnalazione chimica, i pesci accorrono rapidamente e rimuovono l'alga anche se non se ne nutrono. Ma lo fanno solo se il segnale d'allarme è lanciato dal "loro" corallo e non da coralli di altre specie. 
Quando i coralli sono minacciati chiedono aiuto a un pesce, che prontamente accorre in loro difesa. Lo ha dimostrato una ricerca condotta da due biologi del Georgia Institute of Technology, Danielle L. Dixson e Mark E. Hay.
La ricerca è stata effettuata nell'ambito di un studio a lungo termine che ha come obiettivo la comprensione di questi ecosistemi minacciati, nel tentativo di chiarire i rapporti con le altre specie animali e vegetali che abitano le barriere coralline. Da tempo è nota l'importanza di alcune specie di pesci per il benessere dei coralli, e in particolare di diversi gobidi, più noti come ghiozzi, che trascorrono la loro esistenza negli anfratti corallini, ricevendo protezione dai predatori e contribuendo a eliminare potenziali minacce ai coralli. 






Nello specifico, i ricercatori hanno potuto determinare i rapporti fra i coralli appartenenti alla specie Acropora nasuta, importante per gli ecosistemi delle barriere perché cresce rapidamente e fornisce gran parte della loro struttura, e due specie di gobidi, Gobiodon histrio e Paragobiodon enchinocephalus, allestendo una serie di esperimenti per osservare modi e tempi dell'intervento di queste specie ittiche quando il corallo è sottoposto a una minaccia. 

A questo scopo hanno deposto sul corallo diversi filamenti di Chlorodesmis fastigiata, un'alga infestante che sempre più spesso si osserva nelle formazioni coralline, su cui ha una spiccata azione tossica. 
Gli autori dell'esperimento hanno scoperto che pochi minuti dopo il contatto fra corallo e alga, sul posto arrivavano esemplari delle due specie di ghiozzi che iniziavano a rimuovere l'alga: G histrio la mangia, mentre P. enchinocephalus si limita a tranciare l'ancoraggio del filamento al corallo in modo che venga allontanata dal movimento delle acque.
Nel giro di tre giorni la quantità di alghe dannose è diminuita del 30% e i danni al corallo dal 70 all'80%.





"Tutto ciò avviene molto rapidamente, il che significa che deve essere molto importante sia per il corallo e il pesce", ha osservato Hay, che spiega che il pesce non si interessa invece dell'alga quando c'è ma non è in contatto con il corallo.
Questo comportamento ha indotto i ricercatori a ipotizzare che l'intervento fosse dovuto al rilascio da parte del corallo di una sostanza chimica.
Per verificare questa ipotesi, gli scienziati hanno esposto i pesci ad acqua raccolta in prossimità di altre specie di corallo messe a contatto con l'alga tossica, constatando che in questo caso non si osserva alcuna reazione, a indicare che quei pesci erano interessati a proteggere unicamente il tipo di coralli che li ospitava.
Successivamente Hay e Dixson sono riusciti a isolare il messaggero chimico rilasciato dal corallo, e hanno ottenuto la controprova inducendo i pesci a “salvare” un reticolo di nylon su cui erano stati posti filamenti diChlorodesmis fastigiata, non appena nell'acqua circostante veniva introdotta quella sostanza.







Incontri: Massimo A. Bocale






Massimo Bocale, viaggiatore appassionato e instancabile, ha visitato in circa 40 anni quasi 100 Paesi tra Africa, Asia e Sud America. Sin dal suo primo viaggio si arma di una modesta attrezzatura da ripresa che gli permette di scoprire così la sua seconda passione: la fotografia.
I suoi soggetti prediletti sono l’uomo e la natura di cui riesce a cogliere, in qualsiasi contesto, i particolari più significativi. Fotografare per Massimo significa osservare il mondo, viverlo nel profondo e in questo modo comprendere l’interazione che gli uomini hanno con esso. Per questo motivo tra i suoi soggetti preferiti ci sono gli ambienti naturali estremi, quelli in cui è più evidente il rapporto fra cicli naturali e le culture che in essi si sono sviluppate.




Da molti anni dedica parte del suo tempo allo studio di questi luoghi producendo numerosi reportage, documentari e libri. Nei primi anni ’90 ha realizzato per la casa editrice Sweest line di Milano, tre documentari etnografici e naturalistici sulle culture etiopi, sulla Thailandia, e sui deserti cileno e boliviano.




Per la casa editrice Polaris ha scritto e illustrato, sia con foto che disegni, le guide sui territori di Sudan, Etiopia, Kenya, Perù e Tibet; ha inoltre collaborato con l’inserto “Diario di bordo: Il costume maya” al volume Guatemala sempre edito da Polaris e alla stesura dell'ottavo capitolo del volume Laos "trekking tra gli Akka Mouci".




Negli ultimi vent’anni ha tenuto numerose conferenze su temi geografici, etnografici e storici presso vari Comuni italiani, per alcune università e per varie istituzioni scolastiche oltre che per la fiera annuale di “Immagimondo” di Lecco. Ha inoltre partecipato a diverse trasmissioni televisive su Rai 1, Canale 5 e Telenova. Ha infine organizzato mostre fotografiche dal tema "Volti Africani".




Oceania: Ornare il corrpo


"...Indossava una sottile madreperla sul seno / La donna di Kundila, Rangkopa, / Si drappeggiava con lunghe collane di semi, / La donna di Kundila, Rangkopa".
(Ballata della Nuova Guinea).






In Oceania gli ornamenti sono usati quotidianamente da donne e uomini, ma i gioielli e gli accessori più pregevoli e preziosi sono riservati a occasioni o a persone speciali, utilizzati per far risaltare la bellezza dei corpi, a loro volta già decorati con tatuaggi e scarnificazioni o semplicemente pitturati od oliati.
Oltre alla funzione puramente estetica, gli ornamenti esplicitano e dimostrano qualità o attributi delle persone che li indossano.
Fabbricati con i materiali più belli, preziosi e rari, lavorati con maestria, spesso da artigiani specializzati, parlano di ricchezza, sacralità, status e potere.
Nelle società più stratificate gli stessi ornamenti riservati a persone di rango elevato sono permeati di mana: se da un lato quindi fungono da emblemi dei poteri divini della persona che li porta, dall'altro i tabù che li circondano ne ribadiscono e assicurano la separazione dalle persone di rango inferiore.
Sono ereditati dai discendenti e diventano cimeli di famiglia.
Nelle società dove il potere e lo status non sono ereditati ma acquisiti, gli ornamenti che, spesso costituiscono anche i principali beni delle transazioni cerimoniali, testimoniano la ricchezza del portatore, ma anche la sua abilità nel partecipare agli scambi da cui deriva il prestigio.
Ornamenti specifici possono anche essere riservati a individui o categorie di persone durante particolari stadi della vita o indicarne uno stato rituale temporaneo, enfatizzandone la separazione dalla vita sociale ordinaria.
Le vedove indossavano ornamenti distintivi, spesso legati alla persona defunta.
Esistono ornamenti riservati agli iniziati di società o culti esclusivi e altri che, indossati, inducono, per esempio in guerrieri sciamani o danzatori, un particolare stato esistenziale legato all'immanenza dei poteri spirituali degli antenati.
Gli ornamenti dei danzatori malesiani ne rilevano le qualità intrinseche ed enfatizzano i movimenti dei corpi, in un delicato equilibrio tra l'esibizione delle doti personali e l'esaltazione della solidarietà del gruppo.





Donna Mekeo. Papua Nuova Guinea



I Mekeo attribuiscono molta importanza alla bellezza personale e dedicano grande attenzione alla cura dell'aspetto.
L'effetto desiderato è quello di meravigliare, presentando esteriormente, sulla pelle, le qualità interiori della persona.
Mentre gli uomini, soprattutto celibi, si adornano tutti i giorni per rendere efficaci le magie del corteggiamento, le donne sono considerate naturalmente attraenti e si limitano a decorarsi in maniera elaborata in occasioni festive.
Pitture e ornamenti sono utilizzati ad arte per far colpo sugli spettatori, un effetto amplificato dall'uso di piante e fiori dal profumo inebriante.
I colori preferiti sono quelli chiari e brillanti, associati alla vitalità.
Ogni elemento decorativo ha un nome specifico e presenta variazioni che permettono di identificare il clan di appartenenza.
Indossando tali ornamenti, la persona dichiara al mondo anche le sue capacità di entrare in relazione con gli altri, da cui li ha ricevuti in dono.




Uomo Iatmul. Papua Nuova Guinea


L'elaborato copricapo incorpora alcuni fra i beni cerimoniali più pregiati nelle culture Sepik.
Testimonia la ricchezza e lo status.
Le piume del cosoario sono spesso associate ad attività maschili quali la caccia e la guerra.
Conchiglie nassaridi, anelli di conchiglia a zanne ricurve di maiale sono beni di scambio utilizzati nei commerci intertribali, nelle transazioni matrimoniali, e nei riti di riconciliazione che sancivano la fine delle ostilità tra clan o gruppi nemici.
Gli stessi elementi possono essere combinati in composizioni ornamentali su supporti diversi, come pettorali o borse di rete.
Spesso sono inseriti anche nelle rappresentazioni scultoree degli antenati del clan.





lunedì 5 dicembre 2016

Chile: Moai dell'Isola di Pasqua "camminavano" fino al mare.





La comprensione di come le antiche civiltà siano riuscite ad erigere strutture monumentali, come piramidi, templi e complessi rituali, non rientra in quella che potrebbe essere definita "scienza esatta". 
Possiamo avanzare ipotesi, formulare teorie più o meno credibili, ma in assenza di un'abbondanza tracce storiche del processo di costruzione non possiamo far altro che armarci di immaginazione e sfruttare le risorse a disposizione dei nostri antenati per tentare di imitarli.
E' il caso dei moai dell'Isola di Pasqua, sui quali molto si è fantasticato, ma molto si è anche sperimentato. 








Tralasciando i vari metodi di distacco del tufo roccia vulcanica (già ampiamente indagati dall'archeologia), il mistero sulla loro costruzione è principalmente questo: come fecero gli antichi abitanti dell'isola (di origine polinesiana) a trasportare queste statue gigantesche dalla montagna al mare?
Per chi non conoscesse i moai dell' Isola di Pasqua, stiamo parlando di circa un migliaio di statue di tufo vulcanico che costellano i 163 km quadrati dell'isola, blocchi di pietra che possono arrivare a pesare 74 tonnellate e raggiungere un'altezza di 10 metri.
I primi esploratori si chiesero come i locali avessero trasportato queste statue dalla cava di pietra al mare, dato che l'isola era del tutto priva di alberi. Ma le più recenti analisi dei pollini prelevati da alcuni reperti ha dimostrato che l'isola, nel periodo precedente alla prima metà del 1600, aveva ospitato alberi in abbondanza.Gli alberi sono un punto fondamentale per il trasporto delle statue: i loro tronchi possono essere utilizzati per creare slitte e rulli, lubrificanti, cordame, e tutto il necessario per lo spostamento "a braccia" di un blocco di pietra enorme. 

Dopo il 1600, le palme sembrano sparire completamente dall'Isola di Pasqua: furono gli stessi abitanti a decimarli per costruire moai? E' possibile, anche se potrebbe esserci lo zampino di un animale non autoctono (il ratto polinesiano, Rattus exulans, che si ciba di semi di palma), ma il vero punto intrigante della storia dell'Isola di Pasqua è il metodo di trasporto delle statue di pietra giganti.





Una delle teorie più discusse è che gli antichi abitanti dell'isola facessero "camminare" le statue: tramite movimenti ondulatori, la base della statua, posta in verticale, avanzava centimetro per centimetro grazie alla trazione di corde e braccia umane.


Perché escludere che il popolo di Rapa Nui non abbia mai utilizzato rulli e slitte? "E' una bella storia, ma non è supportata da prove archeologiche" spiega Carl Lipo, uno dei primi a proporre l'ipotesi delle "statue danzanti".Secondo Lipo, la posizione di molti moai rimasti incompleti e abbandonati dimostrerebbe che gli abitanti dell'isola li trasportavano verticalmente, senza adagiarli in posizione orizzontale su supporti di legno.Ma la teoria e la pratica spesso differiscono: i ricercatori hanno quindi creato un moai moderno del peso di 4,4 tonnellate e alto 3 metri, e lo hanno spostato tramite l'ausilio di tre funi e qualche decina di persone.

Malesia: Borneo, i tatuaggi Dayak.






L'antica tradizione di praticare il tatuaggio su diverse parti del corpo è espressione di una vera e propria forma d'arte ornamentale diffusa presso molte popolazioni indigene del Borneo.
Le figure e i motivi riprodotti erano molto numerosi e variavano notevolmente da un gruppo all'altro.
I disegni erano e sono tuttora associati alle varie parti del corpo: quelle a forma circolare vengono riportati sulle spalle, sul torace e sul lato esterno dei polsi, mentre un disegno più elaborato come un cane, uno scorpione o un drago è riservato alle superfici interne ed esterne della coscia.
Altre figure rappresentavano uccelli, serpenti e motivi di piante.
Gli scopi di questa usanza erano molteplici e misteriosi, in quanto un tatuaggio sulla mano di un uomo dava prova del suo coraggio in guerra o del fatto che avesse tagliato alcune teste ai nemici.
Per le donne i tatuaggi sono simbolo di bellezza; anzi per molte, i disegni più elaborati denotavano un elevato stato sociale all'interno della comunità.
La pratica del tatuaggio come forma d'arte tende a essere tramandata dai genitori ai figli, ma non ha carattere esclusivamente ereditario in quanto qualsiasi membro del villaggio mostri un certo interesse a praticarla è libero di osservare e assistere al procedimento, per intraprendere in futuro egli stesso tale attività.





La tecnica del tatuaggio è effettivamente complessa e richiede molta esperienza e anche in passato aveva più successo se praticata da un artista affermato.
Il disegno è prima intagliato in un blocco di legno e quindi spalmato con dell'inchiostro o un composto di fuliggine.
Esso viene successivamente premuto sulla zona da tatuare e il contorno del disegno viene perforato sulla pelle con una serie di aghi o spine intinti in un pigmento di colore bluastro,
consistente in una miscela di succo di canna da zucchero, acqua e fuliggine di resina bruciacchiata.
Per il tatuaggio vero e proprio si usa una specie di martelletto provvisto di due o tre minuscoli aghi fissati all'estremità e consistente in un cuscinetto di morbida stoffa per non ledere la pelle. Il martello viene appoggiato sulla pelle dopo aver immerso gli aghi nell'inchiostro.






Questi ultimi vengono quindi fatti penetrare nella cute colpendo il martelletto con un bastoncino.
Allo scopo di evitare infezioni, la parte infiammata veniva spalmata con riso.
Tale procedimento è molto doloroso e in molti casi il completamento del disegno richiede fino a quattro anni di tempo per la necessità di sospendere il lavoro a intervalli regolari.
I Kenyak usano meno linee per i loro tatuaggi e all'apparenza questi si presentano più leggeri e armoniosi rispetto ai disegni tradizionali dei Kajan.
Originariamente il tatuaggio era riservato soltanto alle classi sociali superiori, ma in seguito poteva farsi tatuare chiunque avesse la necessaria disponibilità economica.
Anche tra coloro che avevano la possibilità di farsi tatuare vi erano discriminazioni di carattere sociale poiché soltanto le persone del più alto livello potevano avere cinque anelli nella parte inferiore delle gambe mentre a quelle dello strato sociale inferiore era consentito di farsi tatuare soltanto due anelli.





Nei loro disegni i Kenyah facevano più uso di figure rispetto ai Kajan, che lavoravano maggiormente con motivi lineari e geometrici; anche i Kenyah si tatuavano braccia e gambe.
Ai tempi nostri, e soprattutto nel Kalimantan, dove il governo segue una politica di modernizzazione, l'arte del tatuaggio si sta purtroppo estinguendo e con essa scompariranno forse molti dei disegni più belli rimasti.
Tuttavia non è raro imbattersi ancora in molti esponenti dei gruppi più antichi delle regioni interne, che mostrano con orgoglio i loro corpi tatuati.